Fra i ricordi più belli che ho della mia infanzia ci sono le cene o i pranzi dai miei nonni. Soprattutto quando era estate, e l'odore dei cetrioli e dei pomodori raccolti dall'orto di mia nonna permeava l'aria, facendomi sentire a casa.
Soprattutto quando ci andavamo dopo una giornata calda, passata al mare oppure a casa, dopo le docce, profumati e più freschi, mentre il sole tramontava, la brezza che tipicamente soffia fuori dalle case di campagna a una certa ora ci rigenerava.
A volte c'era anche mio papà con noi, a volte no, anche se i nonni in questione erano i suoi genitori, perché lui lavorava all'estero e non rincasava per mesi. Il silenzio delle scale che dovevi salire per andare in bagno, il rimbombo della camera enorme e vuota dove una volta dormivano i miei bisnonni (e dove, non so perché, mio nonno teneva la diavolina per accendere la stufa in cucina); l'odore della cameretta che era di mio papà e che era diventata la mia quando mi fermavo a dormire lì. La stanza in cui invece dormiva mio fratello, che non so perché sembrava sempre più luminosa dell'altra, e che era quella dove un tempo dormiva mio zio. L'altra matrimoniale, poi, con due letti singoli altissimi dai copriletti azzurri, dove dormivamo a volte quando io e mio fratello ci fermavamo insieme dai nonni, e che era la camera in cui una volta dormivano i miei genitori, appena sposati, quando hanno vissuto qualche anno lì.
E poi la stanza dei miei nonni, gli unici parenti che avessero una tivù in camera (minuscola, in bianco e nero) il lettone sul quale andavo la sera prima di andare a letto quando facevo le "vacanze" lì. Perché per diversi anni le mie vacanze erano lì.
Ma l'anima di quella casa è sempre stata la cucina, con i fiori raccolti nell'orto e nel fossato appena fuori, messi in un vaso e posti sul tavolo. Il divano sgangherato, la macchina da cucire, la tivù troppo alta, la stufa a legna...
Passavo il tempo a saltare sul marciapiede fuori, fingendo di aver disegnato una campana con i gessetti che non avevo, fingevo, sotto il portico, di tirare a canestro, con un pallone da calcio sgonfio in un canestro che non c'era e mi inventavo io.
E il cortile dietro, dove c'erano le galline, la stanza con la "cucina esterna" e il caminetto... quanti polli ho visto sventrare in quel tavolo, quante grigliate preparate da mia nonna ("in tutte le case la griglia la cucinano gli uomini, e invece qui la faccio sempre io!", si lamentava).
Le cucce dei cani, l'orto sul retro, le vigne dove a settembre aiutavo a vendemmiare.
La vasca davanti casa, con l'acqua che correva sempre, sempre fresca, il luogo deputato a lavare la verdura e dove lasciare in fresco l'anguria. L'acqua gelida dove ci lavavamo mani e piedi prima di rientrare in casa dopo aver giocato fuori tutto il tempo.
E il ciliegio, che non c'è più da tanto tempo, ma che quando ero piccola a inizio estate ci regalava terrine e terrine di frutti deliziosi. Una scala sempre appoggiata lì, e mio zio che saliva a raccoglierle.
Oggi i miei nonni sono chiusi nella loro casa, ma non solo per il virus, le uscite erano poche già da un po', soprattutto da quando mio nonno ha cominciato a perdersi in sé stesso. E quando ho sentito mia nonna, l'ultima volta, l'ho sentita su e forte come sempre, ma so che non è proprio così.
E io sono pessima a rapportarmi con queste nuove realtà, con la realtà della decadenza, perché vorrei che fosse sempre tutto come prima, ma non può essere.
Solo l'anno scorso passeggiavo con mia figlia e passavo davanti alla scuola, entusiasta e trasmettendole entusiasmo perché finalmente ci sarebbe entrata, avrebbe fatto parte anche lei di quella "comunità", avrebbe avuto amici e maestre, avremmo condiviso un tempo diverso, il rientro a casa a piedi insieme, i racconti delle sue esperienze, quelle che finalmente avrebbe fatto senza di me. E ora è tutto sospeso, bloccato d'improvviso e senza sapere quando e in che modo riprenderà. Routine appena ingranata, routine di nuovo sgretolata. E lei che mi chiede "ma quando possiamo tornare a scuola?", perché le manca, le manca davvero.
E io, sinceramente, non ne posso più.
Ma non è che non ne posso più di averla in casa. Non è che non ne posso più di dover riorganizzare le cose coi parenti ora che si può, ora che si deve, se vogliamo lavorare entrambi. Non è che non ne posso più di non andare in giro, di dover gestire il gruppo dei genitori e quello delle maestre e metterli in contatto e di dover gestire pure quella di religione, ora, per chi fa religione. Queste cose possono stancarmi, frustrarmi o esasperarmi a volte, ma non sono niente.
Io non ne posso più perché mi piange sinceramente il cuore a vederle la strada bloccata e senza sapere quale possa essere – se ci sarà, e quando sarà – una valida alternativa.
L'incertezza, ora, quella è la cosa peggiore.
Commenti