Ho letto un'intervista a Peter Handke, meglio, una conversazione. Su di lui e la sua opera io avrei voluto scrivere la tesi alla specialistica, tranne che nessun prof pareva disposto a seguirmi e quindi ho dirottato su altro. Ma non è detto che un giorno non riprenda in mano il discorso. Anche se tanto mi manca il tempo per farlo.
È un'intervista che ha un velo di tristezza in sé, ma mi piace molto. Non è davvero triste, ma c'è qualcosa che. Insomma, niente salti di gioia né slanci di vitalità. Da un autore di lingua tedesca non è che ci si aspettino proprio guizzi di ilarità sguaiata, credo.
In ogni caso, mi è sembrato che continuasse un discorso che ho iniziato io qualche post fa: sì, quello del rifugio nella propria mente, dell'Hotel Esistenza di Auster, sempre quello lì. Uno dovrebbe scrivere una tesi a 50 anni, non a 25, perché solo allora avrà abbastanza carne al fuoco, avrà davvero trovato la strada giusta. Almeno, io lo farei, perché solo adesso mi sembra di averne trovata una, anzi, forse più d'una, di cui varrebbe davvero la pena scrivere.
Comunque sia, ho scoperto così che Handke non fa che annotare sogni, scrive quasi sotto dettatura dell'inconscio ed è circondato da matite, una marea di matite che usa per scrivere. Della sua infanzia scopro una madre che non faceva che raccontargli storie, con una superba capacità narrativa che è evidente l'ha influenzato. E poi che la sua identità è stata frammentata, tolta dal suo alveo naturale, sradicata e trapiantata, e che per poter sopravvivere si è dovuto proteggere grazie proprio a quei racconti, che diventavano sogni e che formavano così la sua storia personale.
«La gente comune pensa che la psicoanalisi sia un complesso strumento che ogni tanto salva chi, di dentro, sta perdendo l'equilibrio. Ma la psicoanalisi è solo un'applicazione particolare e un poco artificiale a questi squilibri. È spesso il mondo interiore, che tutti abbiamo, a risanarci: proprio come la febbre è una correzione di temperatura necessaria, con cui il corpo cerca di guarire da sé. [...] Mentre noi "normali" puntiamo i piedi, non vogliamo ascoltare cosa il mondo interiore ci chiede, [...] Handke seguì furiosamente l'istinto di narrare». (Handke. L'identità dello scrittore. Conversazione con Peter Handke, di Luigi Zoja.)
E forse se non l'avesse fatto sarebbe impazzito.
Le voci interiori le sento anche io, e mi ci concentro soprattutto quando sono in mezzo ai campi a passeggio con il cane: lì non ho altro da fare, non posso conversare (se mi mettessi a parlare con il cane mi prenderebbero per matta) seppure a volte io sorrida o scuota la testa come reazione a un discorso che sta avvenendo solo dentro di me, anche se con le più svariate persone (reali o immaginarie). Ed è durante quelle lunghe camminate che, per esempio, negli ultimi due giorni mi sono venute in mente almeno tre storie. Magari non riuscirò a scriverle mai, ma non avete idea di quanto mi conforti raccontarmele e modificarle mentre ci penso, quanto mi piaccia coccolarle e lasciarmi emozionare da esse.
Questo è il motivo per cui amo la solitudine e i lavori manuali: è l'intersezione perfetta dove posso riprendere le fila dei discorsi lasciati durante l'ultima passeggiata, o l'ultima fantasia notturna.
Quindi sì, Peter Handke è un discorso che dovrò riprendere in mano al più presto, perché sono sicura che sia un sospeso di quelli che mi dispiacerebbe lasciare lì.
Commenti
l'ho smessa, e ci sono volte che sento fisicamente la mancanza di una comunione con me stessa...