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I muri intorno

Ora lo so che non sono fatta per sopportare la sofferenza. Non la mia, quella degli altri. La mia la sopporto abbastanza bene, credo, dopo lo smarrimento iniziale. Se è una sofferenza più profonda, una di quelle che ti si radicano nel cuore come un'erbaccia selvatica, quella allora di tanto in tanto riemerge. A volte riemerge appena in tempo perché la estirpi con un taglio netto, a volte si insinua subdola e invisibile all'interno di ogni piega, finché non fuoriesce tutta, implacabile tenace e insistente. E allora va smantellata con calma e pazienza, finché è sotto controllo abbastanza da lasciarti respirare.
Ma quella degli altri non la puoi strappare via. Vorresti e non puoi. E finora sono stata fortunata, non perché ho sofferto poco, ma perché hanno sofferto poco le persone più vicine. E se hanno sofferto non erano così vicine come lo sono altre, e comunque i tempi di ripresa sono sempre stati abbastanza brevi. O almeno così all’apparenza. O forse ho voluto essere cieca.
«Di quanti ciechi ci sarà bisogno per fare una cecità?» ha scritto Saramago, che proprio oggi è morto.
Leggo la Allende e ne invidio la profonda e sudamericana capacità di soffrire in modo tanto acuto ma altrettanto catartico.
Ma probabilmente è per tutti lo stesso, lo stesso gioco infinito di impotenza e attesa, e di dolore e di gioie. Di egoismo e senso di colpa.
Siamo già quasi tutti ciechi, ed è già quasi tutta cecità. Ma si sa, che in un mondo di ciechi il guercio è re.
Ora, che i guerci non chiudano un occhio è essenziale.

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