Mi dispiace sempre abbandonare questo posto per così tanto tempo, ma non è che viene sempre voglia di dire qualcosa. Non perché sia un periodo brutto o bello, ma è che scrivere ogni tanto non viene, anche se vorrei che venisse. Oppure ogni tanto viene solo se poi puoi cancellare, lasciare lì per un po' e poi riscrivere, cancellare di nuovo, modificare ancora. E qui non lo faccio mai, mi dispiace perdere l'immediatezza, e allora scrivo dove nessuno legge, o scrivo solo con la penna della mente, nel foglio dell'immaginazione.
Poi a volte leggo qualcosa di stimolante e mi torna la voglia. Oppure viene e basta. A volte scrivo dei post mentali che poi mi dimentico o decido di non scrivere, e mi dispiace, perché così spariscono.
Avevo un post mentale bello pronto, ma ormai è svanito. Cercare di raccogliere i pezzi di immagini e parole rimasti ormai non ha senso. Chissà da cosa scaturiva, non ricordo più.
Vorrei avere più costanza, vorrei avere maggiori capacità forse, forse meno tempo e più costrizioni, per scrivere meglio.
Ma siccome comunque questo è un posto di cose mie, pubblico un racconto che ho scritto qualche mese fa (in piena fase tesi, oltretutto). Il genere era dato, il tema però libero. Dubito di essermi attenuta esattamente al genere richiesto, ma questo è quel che è venuto fuori.
Una fitta improvvisa al cuore. Una fitta improvvisa, forte, e un dolore lancinante. Qualcosa di caldo sul petto. Un’altra fitta in uscita stavolta. E la cosa calda sul petto. Sangue, immagino. Apro gli occhi di scatto e faccio appena in tempo a vedere una lama lunga e affilata sopra di me, un pugno la stringe, ma non so se lo vedo o lo immagino soltanto, d’altra parte un coltello non viene da solo sulle sue gambe a colpirmi nel cuore della notte. Se non altro perché non ha le gambe. Ma non è notte, un raggio che filtra da una fessura della saracinesca si rifrange sulla lama, ed è per questo che riesco a vedere il coltello.
È l’alba, mentre muoio.
Era l’alba anche quando nacqui, solo che pioveva, quel giorno.
Qualcuno mi gira la testa dall’altra parte, così non vedo più niente, solo la finestra, la vecchia camera che ho tanto odiato nella mia vita, e ora ondeggia davanti i miei occhi appannati, sono lacrime, è la paura o è la vita che se ne va? Esce calda come il sangue, con il sangue, e mi lascerà qui freddo. Sento mia madre gridare e piangere, ma non la vedo, e magari non c'è, magari la immagino soltanto. Non sento già più niente, come quando ti addormenti davanti alla tivù e ti arrivano le voci degli attori ma già si perdono insieme ai pensieri e ai sogni. E poi più niente. Ieri c'ero, domani non ci sarò più.
Ieri. Lo rivedo come fosse adesso il mio ieri, tutti i miei ieri. In silenzio nella mia cucina grigia, e nessun altro rumore, solo quello dei cereali che scrocchiano nella mia bocca. Con i capelli ancora arruffati e l’aria del ragazzetto un po’ ribelle ma tutto sommato buono, e bisognoso di attenzioni. Il velo di barba che mi copre la faccia contribuisce all’idea. Sì un po’ quel genere che piace alle donne, tipo James Dean, se ancora qualcuno si ricorda chi fosse. Con la differenza che io non morirò in una stupida gara tra macchine. Anch’io indosso una maglietta bianca con le maniche corte e mi immagino di essere anch’io in bianco e nero, come su Gioventù bruciata, che ho visto qualche sera fa. E con il grigio che c’è fuori mentre mi vedo riflesso sul vetro potrei pensare di essere proprio così, senza colori. Ma non sono James Dean, e non lo sarò mai.
Il vago odore di latte che sale dalla tazza e dalla mia bocca mi fa pensare alle immagini di famiglie felici che fanno colazione, quelle della pubblicità dove sono tutti carini anche appena svegli, e sorridono, e non piove mai, c’è sempre il sole che entra dalla finestra, ma dai colori capisci che non sono i colori della mattina. È sempre una specie di truffa quella dei mondi che ti creano i pubblicitari, e non te ne accorgi, e poi compri i biscotti pensando che anche tua mamma domani mattina ti sorriderà così, e ci sarà il sole, non la pioggia fredda di quest’inverno freddo in questa pianura fredda, dove sembra che solo a Natale riesca a fare troppo caldo per nevicare, e infatti in genere piove. E tua mamma non ha i riccioli biondi degni di un cherubino, e gli occhi azzurri da husky, non si è ancora truccata, forse nemmeno si trucca mai, la tua. Truccarsi per andare dove poi. È la mamma dei biscotti ad avere quattro figli bellissimi e nemmeno un filo di pancia, e sotto la perfetta e candida vestaglia da camera, si intuisce che non c’è il minimo accenno di cellulite. O che ne so, uno non è che pensa che magari non si è depilata perché non aveva voglia e tanto d’inverno mica mette le gonne e mostra le gambe. Quella fa ancora l’amore col suo bellissimo marito, e magari aspetta anche un quinto figlio. E sorridono tutti. Sempre. Sono più inquietanti loro della mia, di madre, che non si deve fare bella per andare al lavoro, perché non ce l’ha un lavoro, e anche perché non è bella, e mi prepara la colazione, mi imbocca, e poi torna a dormire un po’. E se non ci torna gironzola per la cucina con la faccia imbronciata, grugnisce qualcosa, si lamenta e non ha i riccioli. I suoi capelli sono grigio topo, schiacciati sulla testa in un caschetto tutto sbagliato, perché la sua faccia è tutta sbagliata. Perché ha un figlio tutto sbagliato. Che poi sarei io.
Ma non lo dico così per dire. Lo dico perché l’ho sentita. L’ho sentita al telefono con la zia, l’unica che ogni tanto la chiama, o mentre si lamentava con i vicini, o magari mentre puliva qualche danno combinato dalle mie mani così maldestre, così assurdamente piegate verso l’interno, il polso perennemente flesso. Le mie mani che non obbediscono, io ci provo a comandare loro i movimenti nel modo giusto, ma tra la mia testa e le mie estremità c’è tutto un corpo, tutta una serie di pezzi di me che non rispondono nel modo giusto, e quindi. E quindi. Un groviglio di nervi come fili collegati nel modo sbagliato. Ognuno di essi si muove in modo inconsulto. Poi mi arrabbio, mi innervosisco, e peggiora tutto. Io ci provo, ci ho provato tanto per fare contenta quella mamma rimasta sola. Dov’è il papà? Dov’è, perché non c’è? Non lo so chiedere, e lei non me l’ha mai saputo spiegare. L’ho sentita piangere perché non sono normale. L’ho sentita e lei sa che l’ho sentita, tante volte, perché poi magari la guardavo, e lei mi guardava ma abbassava gli occhi e perché nei miei di occhi aveva già letto tutto. Una volta era seduta sul divano, parlava con la vicina, entrambe mi davano le spalle, ma la mamma doveva averla captata lo stesso la mia presenza, come nei film, anche se qui non c’era un copione. E forse le mamme sono telepatiche sul serio, almeno un po’. E si è girata, e mi ha visto. I nostri occhi si sono incrociati, ovvio, ma la sua faccia non era dispiaciuta, non esprimeva senso di colpa per quello che stava dicendo. Ma da quella volta niente più visite a casa nostra. E non potendomi lasciare solo, niente visite da parte sua a casa di altri. Niente di niente. Non sopportava come mi guardavano gli altri, e allora che nessuno mi vedesse più, che nessuno ci vedesse più.
Questo è ormai da due anni. Ma non è colpa mia se non sono normale. Non è sua ma nemmeno mia, e nemmeno della gente, e nemmeno è colpa mia se la gente non sa guardarti con un minimo di benevolenza anche se non sei normale. Non mi importava niente che avesse detto anche lei quelle cose di me, io potevo far finta di niente. Lo capivo che era disperata e che le erano uscite perché era stanca. Ma volevo anche che mi chiedesse scusa e mi facesse le coccole poi. Mi avrebbe tenuto stretto dicendomi che non voleva, che ero il suo bambino. E invece. Non ci sono state più coccole da quella volta. Solo freddo, fuori e dentro. E la paura. Sembro diventato un cane e sento l’odore della paura che ha ogni tanto quando sono nei dintorni. Ma non so perché, non ho mica fatto niente. Una volta eravamo in giardino e mi sono messo a pestare con il piede un uccellino che era caduto. Ero piccolo e la malattia non era degenerata tanto. Qualche movimento dritto lo facevo. Ero solo un bambino, ero curioso di sapere cosa si provava a vedere qualcosa morire. E vederlo morire per colpa tua. Era piccolo e indifeso, per una volta qualcuno più indifeso di me. La mamma mi ha detto di smetterla e poi io mi sono messo a piangere perché l’uccellino faceva un verso strano, perché stava morendo, e la mamma mi sgridava. Era un brivido terribilmente bello, anche se poi mi sono sentito in colpa, ma al momento mi sentivo Dio. Be’ sì, un dio cattivo per lo meno, il mio di sicuro con me lo è stato. E nessuno poteva mica arrestarmi, era un uccellino. E poi sono animali, non sono nemmeno come i cani o i gatti, non è che gli dai un nome. Però alla fine mi è dispiaciuto.
Cosa ha visto la mamma quel giorno nei miei occhi che l’ha spaventata tanto da non volermi stare vicino, da non guardarmi quasi più in faccia, da non toccarmi se non per lavarmi e sistemarmi i vestiti in modo pratico, senza più affetto. Oppure sono io che sono stanco di questa mamma che fa tutto per me, e non riesco più a vedere l’amore dietro i gesti di abitudine, quelli che fa da tanti anni. Non lo so più. Forse ha solo visto che è diventata come gli altri. O magari ha visto che l’affetto per me costa troppa fatica.
Ogni tanto mi dico che alla fine posso decidere cosa essere. Sono tutto e sono niente. Sono tutto ciò che posso immaginare di essere con le parole nel mio cervello. Posso crearmi la mia vita dentro la mia testa. Ne ho vista talmente tanta di tv che posso inventarmi tanti film. Io sono tutto in potenza. Potenzialmente, posso essere tutto, in definitiva sono incapace perfino di scaccolarmi il naso.
Be’ questo fino a ieri, fino a un minuto fa. Ora sono morto e già non mi manca questa vita. Il corpo, questo peso incredibile che mi teneva a terra, adesso giace sopra il mio letto insanguinato e io vedo tutto da quassù. Funziona così? O è solo un momento, giusto per rendermi conto, per salutarmi là per l’ultima volta? E poi si sparisce? Sono leggero, ora, finalmente, non sono più uno sgorbio, sono aria, adesso sono tutto ciò che non sono mai stato.
Però non ho deciso io di morire e non è giusto, e adesso che ci penso non ho nemmeno capito chi sia stato. Accanto al mio letto, per terra, c'è qualcos'altro. Un altro corpo, ma non capisco. So che avevo sentito mia madre gridare e poi sono morto. Solo questo. Mi avrà ucciso, si sarà uccisa? Mi odiava tanto? O mi amava talmente che non voleva vedermi soffrire? Grazie tante, mamma, sì soffrivo ma avevo i miei momenti buoni e una cosa, almeno una cosa nella vita, avrei voluto farla io, da solo. Sì, quanto ci ho pensato a togliermi la vita, non ne potevo più nemmeno io, mamma. Un corpo inutile con un cervello più che normale. Chi ha testa, non ha bisogno di gambe. E io stavo studiando tutto nel minimo dettaglio per riuscire a togliermela da solo, la vita. Guardavo la tua bella collezione di coltelli da cucina e ci pensavo a cosa potevo fare per renderli utili per me. Sarei stato così orgoglioso di realizzare finalmente una cosa, la mia morte. Almeno questo me lo potevi lasciare.
Non voglio continuare a guardare, e non voglio scoprire se sei stata tu oppure no. La vita che avrei potuto avere me la sono sempre e soltanto immaginata, come in un film dentro il cervello, non potendola rendere reale. E allora mi immagino anche la mia morte, mamma, perché non voglio doverti né giustificare né odiare. Sei l'unica cosa vera che ho avuto e voglio pensare che non sei stata tu ad affondare la lama nel mio cuore, per non sentire di nuovo quella stessa fitta anche adesso che non posso sentire niente. Ho sempre inventato tutto, non mi costa molto inventarmi anche il mio finale.
Poi a volte leggo qualcosa di stimolante e mi torna la voglia. Oppure viene e basta. A volte scrivo dei post mentali che poi mi dimentico o decido di non scrivere, e mi dispiace, perché così spariscono.
Avevo un post mentale bello pronto, ma ormai è svanito. Cercare di raccogliere i pezzi di immagini e parole rimasti ormai non ha senso. Chissà da cosa scaturiva, non ricordo più.
Vorrei avere più costanza, vorrei avere maggiori capacità forse, forse meno tempo e più costrizioni, per scrivere meglio.
Ma siccome comunque questo è un posto di cose mie, pubblico un racconto che ho scritto qualche mese fa (in piena fase tesi, oltretutto). Il genere era dato, il tema però libero. Dubito di essermi attenuta esattamente al genere richiesto, ma questo è quel che è venuto fuori.
Il mio finale
Una fitta improvvisa al cuore. Una fitta improvvisa, forte, e un dolore lancinante. Qualcosa di caldo sul petto. Un’altra fitta in uscita stavolta. E la cosa calda sul petto. Sangue, immagino. Apro gli occhi di scatto e faccio appena in tempo a vedere una lama lunga e affilata sopra di me, un pugno la stringe, ma non so se lo vedo o lo immagino soltanto, d’altra parte un coltello non viene da solo sulle sue gambe a colpirmi nel cuore della notte. Se non altro perché non ha le gambe. Ma non è notte, un raggio che filtra da una fessura della saracinesca si rifrange sulla lama, ed è per questo che riesco a vedere il coltello.
È l’alba, mentre muoio.
Era l’alba anche quando nacqui, solo che pioveva, quel giorno.
Qualcuno mi gira la testa dall’altra parte, così non vedo più niente, solo la finestra, la vecchia camera che ho tanto odiato nella mia vita, e ora ondeggia davanti i miei occhi appannati, sono lacrime, è la paura o è la vita che se ne va? Esce calda come il sangue, con il sangue, e mi lascerà qui freddo. Sento mia madre gridare e piangere, ma non la vedo, e magari non c'è, magari la immagino soltanto. Non sento già più niente, come quando ti addormenti davanti alla tivù e ti arrivano le voci degli attori ma già si perdono insieme ai pensieri e ai sogni. E poi più niente. Ieri c'ero, domani non ci sarò più.
Ieri. Lo rivedo come fosse adesso il mio ieri, tutti i miei ieri. In silenzio nella mia cucina grigia, e nessun altro rumore, solo quello dei cereali che scrocchiano nella mia bocca. Con i capelli ancora arruffati e l’aria del ragazzetto un po’ ribelle ma tutto sommato buono, e bisognoso di attenzioni. Il velo di barba che mi copre la faccia contribuisce all’idea. Sì un po’ quel genere che piace alle donne, tipo James Dean, se ancora qualcuno si ricorda chi fosse. Con la differenza che io non morirò in una stupida gara tra macchine. Anch’io indosso una maglietta bianca con le maniche corte e mi immagino di essere anch’io in bianco e nero, come su Gioventù bruciata, che ho visto qualche sera fa. E con il grigio che c’è fuori mentre mi vedo riflesso sul vetro potrei pensare di essere proprio così, senza colori. Ma non sono James Dean, e non lo sarò mai.
Il vago odore di latte che sale dalla tazza e dalla mia bocca mi fa pensare alle immagini di famiglie felici che fanno colazione, quelle della pubblicità dove sono tutti carini anche appena svegli, e sorridono, e non piove mai, c’è sempre il sole che entra dalla finestra, ma dai colori capisci che non sono i colori della mattina. È sempre una specie di truffa quella dei mondi che ti creano i pubblicitari, e non te ne accorgi, e poi compri i biscotti pensando che anche tua mamma domani mattina ti sorriderà così, e ci sarà il sole, non la pioggia fredda di quest’inverno freddo in questa pianura fredda, dove sembra che solo a Natale riesca a fare troppo caldo per nevicare, e infatti in genere piove. E tua mamma non ha i riccioli biondi degni di un cherubino, e gli occhi azzurri da husky, non si è ancora truccata, forse nemmeno si trucca mai, la tua. Truccarsi per andare dove poi. È la mamma dei biscotti ad avere quattro figli bellissimi e nemmeno un filo di pancia, e sotto la perfetta e candida vestaglia da camera, si intuisce che non c’è il minimo accenno di cellulite. O che ne so, uno non è che pensa che magari non si è depilata perché non aveva voglia e tanto d’inverno mica mette le gonne e mostra le gambe. Quella fa ancora l’amore col suo bellissimo marito, e magari aspetta anche un quinto figlio. E sorridono tutti. Sempre. Sono più inquietanti loro della mia, di madre, che non si deve fare bella per andare al lavoro, perché non ce l’ha un lavoro, e anche perché non è bella, e mi prepara la colazione, mi imbocca, e poi torna a dormire un po’. E se non ci torna gironzola per la cucina con la faccia imbronciata, grugnisce qualcosa, si lamenta e non ha i riccioli. I suoi capelli sono grigio topo, schiacciati sulla testa in un caschetto tutto sbagliato, perché la sua faccia è tutta sbagliata. Perché ha un figlio tutto sbagliato. Che poi sarei io.
Ma non lo dico così per dire. Lo dico perché l’ho sentita. L’ho sentita al telefono con la zia, l’unica che ogni tanto la chiama, o mentre si lamentava con i vicini, o magari mentre puliva qualche danno combinato dalle mie mani così maldestre, così assurdamente piegate verso l’interno, il polso perennemente flesso. Le mie mani che non obbediscono, io ci provo a comandare loro i movimenti nel modo giusto, ma tra la mia testa e le mie estremità c’è tutto un corpo, tutta una serie di pezzi di me che non rispondono nel modo giusto, e quindi. E quindi. Un groviglio di nervi come fili collegati nel modo sbagliato. Ognuno di essi si muove in modo inconsulto. Poi mi arrabbio, mi innervosisco, e peggiora tutto. Io ci provo, ci ho provato tanto per fare contenta quella mamma rimasta sola. Dov’è il papà? Dov’è, perché non c’è? Non lo so chiedere, e lei non me l’ha mai saputo spiegare. L’ho sentita piangere perché non sono normale. L’ho sentita e lei sa che l’ho sentita, tante volte, perché poi magari la guardavo, e lei mi guardava ma abbassava gli occhi e perché nei miei di occhi aveva già letto tutto. Una volta era seduta sul divano, parlava con la vicina, entrambe mi davano le spalle, ma la mamma doveva averla captata lo stesso la mia presenza, come nei film, anche se qui non c’era un copione. E forse le mamme sono telepatiche sul serio, almeno un po’. E si è girata, e mi ha visto. I nostri occhi si sono incrociati, ovvio, ma la sua faccia non era dispiaciuta, non esprimeva senso di colpa per quello che stava dicendo. Ma da quella volta niente più visite a casa nostra. E non potendomi lasciare solo, niente visite da parte sua a casa di altri. Niente di niente. Non sopportava come mi guardavano gli altri, e allora che nessuno mi vedesse più, che nessuno ci vedesse più.
Questo è ormai da due anni. Ma non è colpa mia se non sono normale. Non è sua ma nemmeno mia, e nemmeno della gente, e nemmeno è colpa mia se la gente non sa guardarti con un minimo di benevolenza anche se non sei normale. Non mi importava niente che avesse detto anche lei quelle cose di me, io potevo far finta di niente. Lo capivo che era disperata e che le erano uscite perché era stanca. Ma volevo anche che mi chiedesse scusa e mi facesse le coccole poi. Mi avrebbe tenuto stretto dicendomi che non voleva, che ero il suo bambino. E invece. Non ci sono state più coccole da quella volta. Solo freddo, fuori e dentro. E la paura. Sembro diventato un cane e sento l’odore della paura che ha ogni tanto quando sono nei dintorni. Ma non so perché, non ho mica fatto niente. Una volta eravamo in giardino e mi sono messo a pestare con il piede un uccellino che era caduto. Ero piccolo e la malattia non era degenerata tanto. Qualche movimento dritto lo facevo. Ero solo un bambino, ero curioso di sapere cosa si provava a vedere qualcosa morire. E vederlo morire per colpa tua. Era piccolo e indifeso, per una volta qualcuno più indifeso di me. La mamma mi ha detto di smetterla e poi io mi sono messo a piangere perché l’uccellino faceva un verso strano, perché stava morendo, e la mamma mi sgridava. Era un brivido terribilmente bello, anche se poi mi sono sentito in colpa, ma al momento mi sentivo Dio. Be’ sì, un dio cattivo per lo meno, il mio di sicuro con me lo è stato. E nessuno poteva mica arrestarmi, era un uccellino. E poi sono animali, non sono nemmeno come i cani o i gatti, non è che gli dai un nome. Però alla fine mi è dispiaciuto.
Cosa ha visto la mamma quel giorno nei miei occhi che l’ha spaventata tanto da non volermi stare vicino, da non guardarmi quasi più in faccia, da non toccarmi se non per lavarmi e sistemarmi i vestiti in modo pratico, senza più affetto. Oppure sono io che sono stanco di questa mamma che fa tutto per me, e non riesco più a vedere l’amore dietro i gesti di abitudine, quelli che fa da tanti anni. Non lo so più. Forse ha solo visto che è diventata come gli altri. O magari ha visto che l’affetto per me costa troppa fatica.
Ogni tanto mi dico che alla fine posso decidere cosa essere. Sono tutto e sono niente. Sono tutto ciò che posso immaginare di essere con le parole nel mio cervello. Posso crearmi la mia vita dentro la mia testa. Ne ho vista talmente tanta di tv che posso inventarmi tanti film. Io sono tutto in potenza. Potenzialmente, posso essere tutto, in definitiva sono incapace perfino di scaccolarmi il naso.
Be’ questo fino a ieri, fino a un minuto fa. Ora sono morto e già non mi manca questa vita. Il corpo, questo peso incredibile che mi teneva a terra, adesso giace sopra il mio letto insanguinato e io vedo tutto da quassù. Funziona così? O è solo un momento, giusto per rendermi conto, per salutarmi là per l’ultima volta? E poi si sparisce? Sono leggero, ora, finalmente, non sono più uno sgorbio, sono aria, adesso sono tutto ciò che non sono mai stato.
Però non ho deciso io di morire e non è giusto, e adesso che ci penso non ho nemmeno capito chi sia stato. Accanto al mio letto, per terra, c'è qualcos'altro. Un altro corpo, ma non capisco. So che avevo sentito mia madre gridare e poi sono morto. Solo questo. Mi avrà ucciso, si sarà uccisa? Mi odiava tanto? O mi amava talmente che non voleva vedermi soffrire? Grazie tante, mamma, sì soffrivo ma avevo i miei momenti buoni e una cosa, almeno una cosa nella vita, avrei voluto farla io, da solo. Sì, quanto ci ho pensato a togliermi la vita, non ne potevo più nemmeno io, mamma. Un corpo inutile con un cervello più che normale. Chi ha testa, non ha bisogno di gambe. E io stavo studiando tutto nel minimo dettaglio per riuscire a togliermela da solo, la vita. Guardavo la tua bella collezione di coltelli da cucina e ci pensavo a cosa potevo fare per renderli utili per me. Sarei stato così orgoglioso di realizzare finalmente una cosa, la mia morte. Almeno questo me lo potevi lasciare.
Non voglio continuare a guardare, e non voglio scoprire se sei stata tu oppure no. La vita che avrei potuto avere me la sono sempre e soltanto immaginata, come in un film dentro il cervello, non potendola rendere reale. E allora mi immagino anche la mia morte, mamma, perché non voglio doverti né giustificare né odiare. Sei l'unica cosa vera che ho avuto e voglio pensare che non sei stata tu ad affondare la lama nel mio cuore, per non sentire di nuovo quella stessa fitta anche adesso che non posso sentire niente. Ho sempre inventato tutto, non mi costa molto inventarmi anche il mio finale.
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