Cose che ho imparato a fare (forse):
- prendere con filosofia il fatto di dover raccogliere i soldi per i regali di Natale a maestre e bambini; (inspira, espira, inspira, espira: ce la farai anche quest'anno);
- lasciare che le cose vadano come devono andare, dato che non è che dipenda la vita di qualcuno se una cosa la faccio bene invece che benissimo;
- chiudere completamente il cervello ai pensieri, almeno durante il fine settimana, soprattutto se sono pensieri di lavoro;
Cose che non ho imparato a fare:
- dimenticarmi dell'esistenza dei social network nel fine settimana;
- mettermi a guardare un film (badate bene, film, non serie tv) nella breve finestra temporale che va dall'addormentamento di mia figlia al crollo per sonno sul divano;
- telefonare alla gente.
Okay, prendiamo l'ultimo punto perché potrebbe essere interessante. Ho scoperto da qualche tempo che non sono l'unica ad avere grossi problemi con le telefonate. Una volta mi capitava di non rispondere proprio, anche se vedevo chi mi chiamava, e richiamare solo qualche minuto dopo, quando mi sentivo "preparata". Come se dover improvvisare mi gettasse nel panico. Come se mi aspettassi già, da quella telefonata, l'ennesima rottura di coglioni alla quale non sapevo come rispondere.
Questa cosa l'ho superata solo in parte: infatti non ho problemi a rispondere ad alcune persone che sento spesso (parenti, ovviamente, ma anche persone con cui lavoro); ancora qualche difficoltà ce l'ho con qualche amicizia con cui mi sento più per messaggio che per telefono; problemi grossissimi con gli sconosciuti.
Altro discorso è fare la telefonata: devo chiamare qualcuno per qualcosa di specifico (prendere un qualche tipo di appuntamento, ma anche ordinare la pizza: lo faccio fare a qualcun altro, se posso). Avete presente le vignette in cui una persona sta facendo una chiamata e intanto pensa "Ti prego, non rispondere, non rispondere, non rispondere"? Alcuni lo trovano assurdo. Be', sono io, fatta e finita. Ho scoperto che non sono l'unica, anche persone che si mettono senza problemi davanti l'obiettivo/la fotocamera et similia. E sapete una cosa? Non ho capito bene per quale motivo, ma ho scoperto che invece la videochiamata mi infastidisce meno. Che assurdità vero? Io pensavo il motivo di questo blocco fosse proprio la timidezza, invece il faccia a faccia seppur a distanza mi mette più a mio agio. Forse perché mi aiuto con il linguaggio corporeo (sì, italiana gesticolatrice presente) e mi sembra che nel complesso la comunicazione sia più completa. La voce al telefono senza una persona mi butta malissimo.
A proposito di difficoltà di comunicazione: sto leggendo Epepe. Lo conoscete? È un romanzo di un autore ungherese di cui non ricordo mai il nome. La prefazione l'ha scritta niente meno che Emmanuel Carrère. Il problema con un libro con la prefazione scritta da Emmanuel Carrère, è che finito di leggerla avresti voglia di leggerti un romanzo di Emmanuel Carrère, e non quello dell'autore ungherese sconosciuto. Ma comunque, questo romanzo è davvero particolare. Succede che Budai, un linguista (sì, lo so! Anch'io mi sono sorpresa, proprio la storia di un linguista mi ritrovo, io che amo la materia!) che si deve recare a Helsinki per una conferenza atterra in un luogo sconosciuto. Non se ne rende conto subito – arriva di notte e segue il flusso di gente fino all'autobus senza farci molto caso – e quando arriva all'albergo dove l'autobus lo conduce si rende conto che tutti parlano una lingua che lui non conosce. Si sforza di farsi capire, provando con altre lingue, ma sembra che nessuno le conosca. Insomma, si rende presto conto di trovarsi in un posto che forse non è neanche nel mondo a lui conosciuto, in un mix di etnie di cui non riesce a individuare quella dominante (per avere un'idea della collocazione geografica), dove nessuno conosce inglese, francese, italiano, tedesco, niente. E lui deve non solo trovare un modo per poter andare a Helsinki, o quanto meno tornare a casa, ma anche sopravvivere. Tutto è complicato: chiedere da mangiare, capire dove andare, perché si ritrova – altro fattore sconcertante – sempre costantemente immerso in una folla di gente. Ogni volta che deve fare qualcosa deve fare interminabili file: per rirpendersi la chiave della sua stanza, per entrare in ascensore, per ordinare da mangiare (e arrivare alla cassa dove, immancabilmente, non riesce a farsi capire e viene spintonato via dalla folla impaziente e si ritrova senza riuscire a ordinare). Quando è fuori, spesso si muove investito da un flusso di gente, o seguendo il flusso continuo di gente che lo porta di qua o di là. Insomma, veramente leggendo queste pagine capisci il significato di "essere in balìa degli eventi". Ma lui si sforza moltissimissimo per comunicare, solo che i risultati sono davvero scarsi, quasi trascurabili. Non spoilero niente perché non l'ho finito, che per me è il modo migliore per raccontare un libro: quando sono a 1/3 se non meno ma sono presa dall'entusiasmo. Poi l'entusiasmo potrebbe scemare, succede spesso, ma vi farò sapere se nell'insieme mi è piaciuto tutto o mi ha deluso. Finora, sono felicissima di questa lettura un po' angosciante.
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