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Donne che si raccontano

Ho da pochi giorni finito di leggere I racconti delle donne, a cura di Annalena Benini (Einaudi). A caldo, dopo quasi ogni racconto, avrei avuto moltissime cose da dire, tanto che per scrivere un post scritto bene avrei bisogno di diverse ore, probabilmente, ore che a disposizione non ho. Quindi cercherò di soffermarmi brevemente solo su alcune cose.
Sono stati scelti racconti diversi di autrici diverse, racconti che scandagliano in modi differenti l'interiorirà femminile, ma non soltanto questo. Alla fine, sono racconti che sondano il mondo intero, uomini compresi.
Non ci sono eroine affrante né ribelli coraggiose: qui c'è la realtà, con tutte le sue contraddizioni e anche con tutte quelle cose che difficilmente si dicono.
Se dovessi scegliere 3 racconti che mi hanno colpita (per non diventare troppo prolissa e perché tre di solito è il numero perfetto) allora di sicuro non potrei rinunciare a:

Il valzer di Dorothy Parker, uno perché è Dorothy Parker, un'autrice il cui piglio ironico, ma a volte anche ossessivo e ossessionante, mi fa sentire uno spirito a lei affine.
«In fondo chiedo così poco: che mi lascino tranquilla nel mio angolino, a rimuginare tutta la sera sui miei guai. Ma no, doveva farsi avanti, tutto inchini e fossette e posso avere l'onore. E io a dirgli che sarebbe stato un vero piacere ballare con lui. Non riesco a capire come mai un fulmine non mi abbia fatto secca. Già, a cadere stecchita mi sarebbe sembrata una gita di piacere, paragonata alla tortura di dover ballare con questo tizio. Ma che altro potevo fare? Tutti gli altri si sono alzati per ballare, a parte noi due. Ero in trappola. Intrappolata come un trappista in una trappola.
Che altro si può dire, quando un uomo ti invita a ballare? Ci mancherebbe altro, dovrai passare sul mio cadavere? Oh grazie infinite, ne sarei estasiata, ma ho le doglie. Oh sì, che bello, balliamo. Finalmente un uomo che non teme di prendersi il beri-beri.»

Il secondo racconto che sceglierei è Invidia di Kathryn Chetkovich che racconta cosa abbia significato per lei scrittrice vivere con uno scrittore famoso nel momento in cui stava diventando famoso; la consapevolezza di non essere altrettanto brava, il senso di colpa per quel sentimento invidioso, la volontà che non fosse poi così bravo, che il successo fosse dovuto al fatto che fosse un uomo e non che fosse davvero bravo.
«Perché l'uomo, che quando l'avevo incontrato era così piacevolmente in crisi, ora aveva trovato la quadra, il punto di svolta. Nei mesi che mi ci erano voluti per scrivere un raccontino di quindici pagine irrisolte sulla fine di un matrimonio, una breve commedia su una donna che va a letto col marito della sua migliore amica, e una sceneggiatura di settanta pagine che portava i segni disperati ed evidenti della "esercitazione didattica", lui aveva sfornato svariate centinaia di cartelle del suo nuovo romanzo.
Che purtroppo era buono. […]
Nel bel mezzo di quell'intenso periodo, l'uomo una sera tornò a casa frustrato per un paio di giornate difficili e mi chiese se gli rileggevo qualche pagina su cui si stava tormentando. Mi sentii immensamente sollevata al pensiero che anche lui potesse produrre una schifezza, e apprezzai che fosse disposto a mostrarmela.
Provai il desiderio improvviso di buttarlo per terra e tirarmi su la gonna, ma pensai di leggere prima le pagine.
Lui mi portò le olive e un bicchiere di vino, e io mi sedetti a leggere. Confidavo nel peggio ed ero già pronta a incoraggiarlo.
– Non capisco, – gli dissi alla fine. – È fantastico. »
(Il compagno scrittore famoso è Jonathan Franzen, per chi non lo sapesse).

Il terzo più che un racconto è un'analisi sull'eterno dilemma: se chi ha prodotto un'opera d'arte si rivela essere un mostro, posso ancora godere della sua opera d'arte oppure no? Si intitola Quando l'artista è un mostro e vi dirò che, secondo me, la risposta è ancora difficile (ma anche perché ci sono diversi livelli di mostruosità e diverso modo individuale di fruire un'opera). Ma questo è il pezzo che più mi ha colpito
«Non sto dicendo che ho ragione o torto. Ma sono il pubblico. E sto semplicemente prendendo atto della realtà di una situazione. Il fatto che conosciamo la vicenda di Soon-Yi interferisce con Manhattan. Ma il film è anche indecente di per sé. E ha anche tante qualità abbastanza straordinarie. Tutte queste cose possono essere vere allo stesso tempo. Sentirsi dire dagli uomini che la storia di Allen non dovrebbe avere importanza non fa sì che non abbia importanza.
Cosa devo fare con questo mostro? Ho una qualche responsabilità, in un senso o nell'altro? Devo respingerlo o devo superare la mia avversione biografica e guardare, leggere, ascoltare?
E perché il mostro ci fa – mi fa – tanto arrabbiare?
Il pubblico vuole qualcosa da vedere, leggere o ascoltare. È questo che lo rende un pubblico. Allo stesso tempo, in questo particolare periodo storico in cui siamo sommersi da rivelazioni ripugnanti, il pubblico è ripetutamente disgustato dai nuovi mostri. Il pubblico si esalta unendosi al coro di denunce dei mostri. Il pubblico gira i tacchi e giura che non vedrà mai più un film con Kevin Spacey.
È possibile che i sentimenti del pubblico siano puri, legittimi e autentici. Ma potrebbe esserci dell'altro.
Quando si prova un sentimento morale, l'autocompiacimento è sempre dietro l'angolo. Avvolgiamo le nostre emozioni in un linguaggio etico, e ci ammiriamo nel farlo. Siamo guidati da un'emozione, un'emozione attorno alla quale disponiamo un linguaggio. La trasmissione della nostra virtù ci sembra estremamente importante e stranamente elettrizzante.»

Ho fatto una scelta, ma ci sarebbe molto altro da dire, per esempio il brillante racconto di Chimamanda Ngozi Adichie, Domani è troppo lontano, in cui una ragazzina, consapevole che, in quanto femmina, sarebbe venuta sempre dopo il fratello, decide di fargli male e finisce per ammazzarlo involontariamente. Oppure Mary Miller in Il 37, dove si sonda la difficoltà di prendere anche solo un autobus da sola. E l'ottimo Fantasie di stupro di Margaret Atwood. Ma li ho trovati tutti (o quasi) brillanti, e sono contenta di aver intrapreso questo viaggio veloce attraverso molte autrici, molte a me sconosciute o conosciute solo vagamente per il nome, forse proprio perché in quanto donne devono sgomitare più di altri, o forse semplicemente perché a un certo tipo di letteratura io per prima mi sono avvicinata poco (e non intendo letteratura femminile, una definizione odiosa che sembra relegare le autrici a un piano inferiore, ma intendo racconti. Oltre al fatto che mi dirigo spesso verso nomi più noti che ignoti). Ma sto spaziando molto più di quanto non facessi una volta su generi e temi e, nonostante il tempo sia poco, sono felice di riuscire a farlo, anche se non sempre con molta lucidità, purtroppo.
Il post alla fine è venuto piuttosto lungo lo stesso, perdonatemi.

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