Fuori piove, e il mio Hotel Esistenza a volte è fatto di questo, di un posto dove fuori piove, è grigio, umido e freddo e dentro però c'è un caldo confortante, una tazza di tè fumante, una coperta morbida e del tempo per me.
Un giorno ho detto che Follie di Brooklyn parla anche di me, e tanto.
Ci sono cose di questo libro – e non è la storia in sé, quella non ve la voglio nemmeno raccontare, perché di scrivere trame non mi interessa tanto – dicevo che ci sono cose che mi rispecchiano molto.
L'io narrante, Nathan (anziano, in pensione, divorziato) decide di voler scrivere Il libro della follia umana e «riportare in esso, con il linguaggio più semplice e chiaro possibile, il racconto di tutti gli svarioni e i capitomboli, i pasticci e i pastrocchi, le topiche e le goffaggini in cui ero caduto nella mia lunga e movimentata carriera di uomo».
Lavora su blocchetti di appunti, foglietti volanti, retro di documenti vari, insomma, disordinato ma meticoloso, tanto da dividere per categoria questi capitomboli e dividerli in scatole diverse.
Nathan questa cosa poi un po' la abbandona, o forse ne fa il libro che possiamo leggere tutti, perché accadono altre vicende. Incontra suo nipote e intreccia la sua vita con quella di altre persone e personalità curiose.
Anche se questa idea mi è piaciuta più che altro perché tanti anni fa avevo iniziato a fare qualcosa di molto simile, in foglietti strappati dal quaderno e poi infilati a caso in una scatola di latta per biscotti (chissà che fine hanno fatto quei foglietti?) l'altra cosa che più mi fa dire quanto sia mio questo libro è un'altra. Il nipote di Nathan, Tom, all'università ha scritto una tesi su Edgar Allan Poe e Henry David Thoreau, o meglio la tesi parla «dei mondi che non esistono. È uno studio del rifugio interno, una mappa del luogo dove un uomo si reca quando non è più possibile la vita nel mondo reale».
La mente.
Quel posto dove vai quando hai bisogno di conforto. Ne ho parlato poco tempo fa in un post, di come pensavo, da piccola, di essere l'unica ad avere questo luogo nella mente nel quale rifugiarmi. Prima di dormire è lì che andavo se avevo bisogno di togliermi le angosce, le paure, le ansie per il giorno dopo o per i mesi dopo. E succede ancora.
Auster gli dà un nome, a quel posto, lo chiama Hotel Esistenza.
«HARRY Di che stiamo parlando?
NATHAN Del rifugio interiore, Harry. Quel luogo dove un uomo si reca quando la vita nel mondo reale non è più possibile.
HARRY Ah... Sì, io ne avevo uno. Come tutti, presumo.
TOM Non necessariamente. Richiede una buona dose di fantasia, e quanti ce l'hanno?»
Harry è un altro personaggio che all'inizio può sembrare controverso (è un truffatore) ma ha una sincerità che, non so come dire, è propria di un truffatore (peraltro molto ingenuo), quel genere di imbroglione pieno di vitalità e dalle intenzioni tutto sommato buone.
A un certo punto loro tre penseranno di realizzarlo sul serio il loro Hotel Esistenza, quel «sogno folle di abbandonare angosce e preoccupazioni di questo mondo infelice per creare un mondo nostro». Diciamo che in un certo senso è come se ci riuscissero, in modi diversi e prendendo la via più lunga. Ma anche no, perché la vita, la realtà, non è e non può essere quell'hotel. Vi dico che al progetto originale ci arrivano a un tanto così. Certo, il preludio al finale, che ovviamente non spoilero, sta anche qui: «non c'è scampo dall'infelicità in agguato sulla terra [...] Nemmeno dietro i portici blindati del santuario fasullo noto come Hotel Esistenza». Questo però non toglie che si possano vivere vite belle e piene di felicità, e ogni tanto trovare sollievo nella fantasia è l'unico modo per andare avanti.
Ma quello che davvero ha toccato corde più profonde è un aneddoto. E riguarda Kafka.
A un certo punto si racconta di Kafka e la storia della bambola.
È l'ultimo anno di vita di Kafka e lo scrittore vive a Berlino con una donna, Dora, che ha la metà dei suoi anni e di cui è innamorato. I pochi mesi che gli restano probabilmente sono i più felici della sua vita. Ogni pomeriggio Kafka va a fare una passeggiata insieme a Dora, e un giorno i due incontrano una bambina in lacrime. Kafka le chiede che cosa è successo, e lei risponde che ha perso la sua bambola. Allora lui inizia a inventare una storia per consolarla, le dice che la bambola è andata a farsi un giro. La bambina chiede come faccia lui a saperlo, e lui risponde che la bambola gli ha scritto una lettera. La bambina vuole vederla ma Kafka dice che gliela porterà l'indomani. Così va a casa e scrive la lettera.
«Dora osservandolo mentre scrive, nota la stessa serietà [...] che mostra quando sta componendo una sua opera. [...] Se riuscirà a presentare alla bambina una bugia bellissima, e convincente, sostituirà la bambola perduta con una realtà diversa: falsa forse, ma veritiera e credibile secondo le leggi della narrativa».
Kafka si dedicherà a scrivere una lettera ogni giorno da parte della bambola per la bambina. La cosa continua per tre settimane. E riesce anche a creare un finale soddisfacente, con un addio felice della bambola alla bambina, che ovviamente non sente ormai più la mancanza della bambola. Così la magia non si spezza mai.
«Lei ha la storia, e quando una persona è abbastanza fortunata da vivere all'interno di una storia, da vivere in un mondo immaginario, i dolori di questo mondo svaniscono. Perché fino a quando la storia continua, la realtà non esiste più».
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