C'è un certo genere di "cautele" che tradiscono una discriminazione mascherata da "tolleranza" (parola che odio, perché presuppone che io, che sono nel giusto, tollero te, che sei nell'errore o nel non-giusto, perché sono dotato di un'infinita magnanimità, non merito anche un applauso?), da attenzione alle esigenze dell'altro, "diverso" da noi, eccetera eccetera.
Come quando uno dice che "tal dei tali mi fa anche pena poverino, e allora..." ma pena di che? Voglio dire, a me non fa pena praticamente niente e nessuno, perché voglio dire, dall'alto di quale piedistallo mi dovrei ergere per provare pena per una persona che si trova in difficoltà, o che si trova addirittura soltanto in una condizione diversa dalla mia, che forse potrebbe provocargli delle difficoltà nella vita, ma forse anche no? Io sotto i miei piedi non vedo piedistalli. Non perdo tempo a provare pena, piuttosto se mi è possibile mi prodigo per aiutare quella persona perché lo trovo semplicemente giusto, non perché sono meglio. Insomma, quando si prova pena non sembra un po' di togliere a quella persona ogni dignità, ogni possibilità di miglioramento, come se si trovasse in una condizione definitiva, come se non potesse trovare forza e mezzi, da solo o aiutato da qualcuno, per tirarsi fuori dal fango?
C'è del grottesco in tutto ciò.
Come c'è del grottesco a chiamare "neretto" uno che suona il campanello, è di colore e chiede soldi o vuole vendere qualcosa. (Conoscevo chi diceva così: ha suonato un neretto, e io pensavo fosse un bambino nero, invece era un adulto.)
Un po' come quando la zia del mio moroso chiama "omenèt" (omino, ometto) quello che vende alimentari e altro a domicilio. Mi ricorda "l'omino dell'acqua" nel film di Ale e Franz, dove Franz si incavola (perché a insaputa della moglie, dopo aver perso il lavoro è lui che consegna l'acqua) perché non è che l'uomo in questione sia un piccolo omettino di dimensioni inferiori.. insomma, avete capito di cosa sto parlando, no? Di come certo linguaggio e certi atteggiamenti siano già un giudizio su una persona.
O come, successo ieri, una persona sconsiglia a un'altra persona di andare a vedere un film con un'altra persona affetta da un "difetto", un'anomali fisica, perché in quel film si prende in giro, in una scena, quel difetto fisico. Non è una presunzione pensare di sapere cosa è meglio per gli altri? Pensare che una persona non si possa difendere da sola da questo genere di cose, e poi andiamo, è un film, non l'ho fatto io e non l'ha fatto il suo amico, l'ha fatto il regista, dovrebbe forse prendersela con me, la persona affetta da quel difetto, perché rido di una scena che fa ridere, punto? Perché poi non fa ridere il difetto in sé, ma il modo in cui i personaggi del film, gli altri, quelli "normali", ne parlano e cioè, alla fine, sto ridendo di loro, dei "normali" e di come si rapportano con quel difetto.
Io ho avuto a che fare per un certo tempo con disabili di vario tipo, e li ho visti felici perché gli operatori che vivono con loro e li aiutano non sono santi pietosi che provano pena per loro, sono soltanto loro amici, con loro si divertono, fanno notte e festeggiano, lavorano e cucinano, e se serve con loro si incazzano pure e di certo a volte sbagliano e li fanno incazzare loro, insomma, non vi sembra la stessa vita che facciamo tutti quanti?
Come quando uno dice che "tal dei tali mi fa anche pena poverino, e allora..." ma pena di che? Voglio dire, a me non fa pena praticamente niente e nessuno, perché voglio dire, dall'alto di quale piedistallo mi dovrei ergere per provare pena per una persona che si trova in difficoltà, o che si trova addirittura soltanto in una condizione diversa dalla mia, che forse potrebbe provocargli delle difficoltà nella vita, ma forse anche no? Io sotto i miei piedi non vedo piedistalli. Non perdo tempo a provare pena, piuttosto se mi è possibile mi prodigo per aiutare quella persona perché lo trovo semplicemente giusto, non perché sono meglio. Insomma, quando si prova pena non sembra un po' di togliere a quella persona ogni dignità, ogni possibilità di miglioramento, come se si trovasse in una condizione definitiva, come se non potesse trovare forza e mezzi, da solo o aiutato da qualcuno, per tirarsi fuori dal fango?
C'è del grottesco in tutto ciò.
Come c'è del grottesco a chiamare "neretto" uno che suona il campanello, è di colore e chiede soldi o vuole vendere qualcosa. (Conoscevo chi diceva così: ha suonato un neretto, e io pensavo fosse un bambino nero, invece era un adulto.)
Un po' come quando la zia del mio moroso chiama "omenèt" (omino, ometto) quello che vende alimentari e altro a domicilio. Mi ricorda "l'omino dell'acqua" nel film di Ale e Franz, dove Franz si incavola (perché a insaputa della moglie, dopo aver perso il lavoro è lui che consegna l'acqua) perché non è che l'uomo in questione sia un piccolo omettino di dimensioni inferiori.. insomma, avete capito di cosa sto parlando, no? Di come certo linguaggio e certi atteggiamenti siano già un giudizio su una persona.
O come, successo ieri, una persona sconsiglia a un'altra persona di andare a vedere un film con un'altra persona affetta da un "difetto", un'anomali fisica, perché in quel film si prende in giro, in una scena, quel difetto fisico. Non è una presunzione pensare di sapere cosa è meglio per gli altri? Pensare che una persona non si possa difendere da sola da questo genere di cose, e poi andiamo, è un film, non l'ho fatto io e non l'ha fatto il suo amico, l'ha fatto il regista, dovrebbe forse prendersela con me, la persona affetta da quel difetto, perché rido di una scena che fa ridere, punto? Perché poi non fa ridere il difetto in sé, ma il modo in cui i personaggi del film, gli altri, quelli "normali", ne parlano e cioè, alla fine, sto ridendo di loro, dei "normali" e di come si rapportano con quel difetto.
Io ho avuto a che fare per un certo tempo con disabili di vario tipo, e li ho visti felici perché gli operatori che vivono con loro e li aiutano non sono santi pietosi che provano pena per loro, sono soltanto loro amici, con loro si divertono, fanno notte e festeggiano, lavorano e cucinano, e se serve con loro si incazzano pure e di certo a volte sbagliano e li fanno incazzare loro, insomma, non vi sembra la stessa vita che facciamo tutti quanti?
Commenti
Purtroppo c'è gente che si sente tollerante pur non essendolo ed è questo che più mi fa arrabbiare.