Scritto per un concorso letterario di qualche mese fa.
Lontano dalla vetrina
Un rettangolo lungo e color noce su sfondo bianco; è una porta che non si chiude mai del tutto e non si apre mai del tutto, va su e giù tipo le porte da saloon, quelle dei film western, e smuove l'aria, ma non sbatte mai. Non fa rumore, se non quello scivolare su e giù, su e giù, a volte cigola un po’, sempre più sommessa finché si ferma e non lascia traccia di chi, o che cosa, è entrato o uscito.
Un cubo. Un cubo le cui pareti sono tutte bianche, solo il soffitto è giallino e un po’ vecchio perché non è stato ridipinto. Niente lampadari, ma faretti agli angoli che illuminano tutto quel bianco. Troppo bianco. Ne spengo due, a me piace la penombra.
Un letto al centro della stanza. Non ci vado mai sopra, se non per dormire, piuttosto mi siedo spesso per terra e ci appoggio giusto la schiena: a gambe incrociate, o raccolte sul petto, mai con le gambe distese. Le ginocchia mi fanno male perché mi rannicchio sempre. Chi l’avrebbe detto che rannicchiarsi fosse così deleterio per le ginocchia. Il copriletto è rosso.
Attorno è pieno di libri, nuovi e vecchi, libri che ho e libri che non ho più, libri che vorrei avere e che non ho ancora; in giro per la stanza ci sono fotocopie, fogli svolazzanti, e lo strano odore dell’inchiostro sulla carta, che mi toglie il fiato e mi tappa il naso. C'è un computer con una stampante sempre piena di fogli, perché non si sa mai, prima o poi qualcosa si scrive, e poi si stampa, e poi si rilegge. Ci sono le penne, ma è l'odore della matita quello che si sente più forte, e ogni tanto se ascolti bene puoi sentire il rumore della sua punta che scorre incerta e frettolosa sui fogli, o su un quaderno.
A volte sento la porta che si muove perché entra o esce qualcosa. Non riesco mai a vedere che cos’è, riesco sempre solo a captare il movimento, ma non la sostanza della cosa, ma so che vuol dire che c’è qualcosa nell’aria, che per aggiunta o per difetto ha cambiato il resto della stanza. Percepito il cambiamento allora è il momento in cui posso iniziare a scrivere qualcosa, un inizio, delle parole, un’idea, o frasi intere.
È la stanza della mia riservata immaginazione.
È la stanza di tutto ciò che non ho mai scritto, di ciò che non scriverò mai, di ciò che ho scritto e dimenticato e bruciato.
Prendere ispirazione dal mondo là fuori, dite voi. Certo, come no. Il mondo è diventato una gigantesca vetrina, gli uomini sono i manichini dagli occhi vuoti e stanno marcendo. Solo che marciscono dentro e non si vede. Ma l'odore della pelle dell'ultima borsa Gucci, o l'ultimo Kenzo, non riescono a coprire il fetore che ne esce. Gli occhiali da sole non nascondono abbastanza un cervello vuoto.
Là fuori di puro è rimasto ben poco. Se non è l’immagine, sono i discorsi finto-altisonanti, o le parole gridate, o il chiacchiericcio inutile di chi crede di avere ancora qualcosa da dire. Ogni suono ti corrode i timpani, e ogni colore ti colpisce dritto nella retina come un pugno, e lascia stampato il suo marchio di immondizia. Ed è così che siamo diventati tutti ciechi. «Di quanti ciechi c’è bisogno per fare una cecità?» diceva Saramago, io dico, ormai non importa più, perché la cecità è tutta là fuori, e ciechi lo stiamo diventando tutti. E se non lo fossimo resta ogni giorno ben poco da guardare.
Preferisco la mia stanza. La mia fonte di emozioni autentiche. Lì dentro c’è tutto quello che deve esserci, tutto quello che è necessario che ci sia. E quello che manca lo aggiungo, senza doverlo comprare. Solo lì posso soffrire intensamente, o gioire intensamente, senza il bisogno di gridarlo fuori. Che non serve, che non sarebbe più vero dell'ultimo naso di Jackson.
P.S. Un articolo che a qualcuno può piacere, stavo per linkarlo su FB, poi ho pensato.. a che pro?
meglio qui: Noi e gli eroi letterari
Commenti