Che bello era quando eravamo piccoli e andavamo all'avventura. Chissà se i nostri figli lo faranno ancora, o i pericoli ci spaventeranno e non glielo permetteremo più di tanto.
Andavo all'avventura con mio fratello e il mio vicino di casa, che quasi era un secondo fratello: poteva essere che prendessimo le bici e raggiungessimo i campi fino alla siepe dietro la ferrovia, e ogni tanto oltrepassavamo la siepe (riempiendoci di resina per la gioia di mia madre quando la sera, nella vasca da bagno, non riuscivo a togliermela da gambe e braccia). Aspettavamo che passasse un treno e lo guardavamo andare, rapido come niente che avessi mai visto. E a volte mettevamo dei sassi sui binari, per vedere cosa succedeva. Ovviamente, nulla.
Oppure organizzavamo gare di cross, lo scalino del cortile era perfetto per saltare e impennare con le nostre BMX.
E le partite a "chi fa gol va in porta" sull'erba, e io che adoravo stare in porta e mi buttavo su qualunque superficie, dura o meno che fosse, per prendere la palla.
Oppure le avventure con la mia amica, quella un po' più selvaggia, abitavamo nella stessa strada ma abbastanza lontane da essere in due vie diverse, e abbiamo passato l'estate dopo la quinta elementare ognuna a casa dell'altra, a turno. Da me speravamo che i disegni dei copriletti fossero in realtà la chiave per entrare in mondi diversi, da lei era l'orto in fondo al giardino che speravamo ci conducesse in posti magici.
Era l'infanzia più pura, quando ancora ogni estate sembrava poter promettere qualunque cosa.
E l'estate era anche il periodo delle tante letture, dei libri che avevo in casa (Il buio oltre la siepe uno dei primi romanzi da grande che ho letto, e che amo e amerò sempre) e le sortite in biblioteca insieme a mia mamma, prendevamo tre libri a testa e li riportavamo dopo un mese e tornavamo a casa con altri tre.
È così che ho iniziato a leggere Stephen King, dove ritrovavo quelle avventure dell'infanzia, le stesse che stavo ancora vivendo anche se iniziavano a diradarsi, ed entravo in quel mondo bello e spaventoso insieme, ché bello e spaventoso insieme è anche il mondo reale.
Una volta cresciuta un po', mio fratello ormai troppo grande per giocare con me, ero più sola, ma non lo ero davvero. I personaggi dei libri mi tenevano compagnia, i luoghi che ci trovavo erano luoghi fantastici in cui viaggiare e anche quando posavo quelle storie, stanca di tutto quel leggere, e giocavo a qualcosa facevo finta di essere altrove, mi inventavo storie e fingevo di viverle. L'ho fatto per così tanto tempo che a un certo punto della mia vita mi sono chiesta se fosse normale farlo, se non mi estraniassi troppo dalla realtà, se non fosse segno che qualcosa in me non andava.
Ma la ricordo bene l'estate in cui mia mamma mi aveva insegnato a fare qualcosa con l'uncinetto (perché glielo avevo chiesto io) e non ero capace, sapevo solo fare la catenella e chiuderla e poi disfarla e rifarla e avanti così, ma fingevo di essere un pescatore in riva al mare e il filo era in realtà una rete da pesca che io stavo aggiustando.
Oppure quando giocavo sul pavimento con il Tralix, chissà se qualcuno se lo ricorda, era un gioco di costruzioni (adesso cerco la foto e la metto nel post) e intanto fingevo di essere un inventore e che stavo lavorando al mio ultimo progetto.
Ecco, era proprio quello che avevo io. |
Quanto avessi la testa fra le nuvole, credo che nessuno lo percepisse davvero. E chissà, forse era proprio fra quelle nuvole che trovavo la tranquillità, la dolcezza dello stare bene con sé stessi senza bisogno di scendere a compromessi.
Ma poi si cresce e non ci è più concesso di abitare le nuvole come da piccoli. Ma io vi confesso che mi ci rifugio ancora ogni tanto, e non è sempre una fuga dalla realtà, è più un disegnarsi la realtà un po' meno spaventosa di quanto a volte non sia, raccontarci una storia che possa avere un lieto fine. In fondo è per questo che leggiamo, guardiamo film, serie tivù... perché abbiamo bisogno delle storie, di vedere come possiamo – e che possiamo – affrontare tutto quanto anche noi.
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