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You just keep me hanging on

Certe canzoni ti arrivano in momenti inaspettati, in modi inaspettati. Come un paio di settimane fa, mentre passeggiavo con Zuma accanto alla pista ciclabile, e non avevo voglia di ascoltare Morning o forse ancora la puntata non era uscita, perché era presto, e il cielo era grigio, o forse non lo era ma io me lo ricordo così, perché mi sentivo un po' grigia anch'io. Dalle cuffie mi è arrivata la voce di Lou Reed.
Certe canzoni ti arrivano in momenti inaspettati, e non è tanto per quello che dicono, o forse meglio dire che non è solo per quello che dicono, ma è per le note, insieme alle parole, insieme al timbro di voce, e Perfect Day ha fatto questo, è entrata con le sue note, le parole e il timbro e in qualche modo si sono trasformati in una mano che strizza le viscere, fa salire il diaframma che spinge sui polmoni che però hanno incamerato troppa aria e improvvisamente sembrano scoppiare e intanto inizi a sentire qualcosa spingere da dietro gli occhi.
You just keep me hanging on
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Dafne mi ha chiesto, un giorno, mentre cantava una canzone dal film Oceania "perché anche se ho caldo quando canto questa canzone mi viene freddo?".
Ti vengono i brividi perché ti emozioni.
“Mamma ma tu come ti senti dentro?"
Un casino amore, ma questo non posso risponderlo. In che senso, le ho chiesto, perché noi adulti se non diamo un senso, un confine, un limite alle cose non siamo capaci di descriverlo.
La notte scorsa Dafne ha fatto un brutto sogno (due brutti sogni, ha specificato poi stamattina) e allora me la sono portata nel lettone, e quando a un certo punto mi sono girata sul fianco perché non ci stavo più e lei mi si è appiccicata addosso, il suo petto contro la mia schiena e respiravamo insieme ho pensato ecco l'amore, respiriamo insieme anche se non ci guardiamo e al mattino io ho mal di schiena e al collo ma tu non fai più brutti sogni.

Finisce febbraio e anche se fa ancora freddo la sento la primavera alle porte. Quest'anno mi fa più paura di altri, non so perché. Mi sento al sicuro nel guscio dell'inverno.
Un paio di giorni fa ho iniziato a leggere La tua assenza è tenebra, e Stefánsson ogni volta riesce a dire le cose in quel modo che riesce a essere delicato, spietato, dolce, feroce. Come una canzone quando ti strizza le viscere. Ieri ho letto questo pezzo:

«Tell me how long's the train been gone,
and was she there?

Difficile scrivere un testo più semplice di questo. Qualche esclamazione ripetuta all'infinito.
Da quanto è partito il treno? E lei c'era, era a bordo?
Chiunque avrebbe potuto scriverlo. Perfino un agente di cambio di cattivo umore, un politico serioso nel giorno più grigio dell'esistenza. Non importa dove tu vada a cercare nella storia di un essere umano – troverai sempre la stessa solfa sull'amore, la nostalgia e il desiderio. Ritornelli monotoni e ripetuti all'infinito, e a dirla tutta talmente abusati che ormai da tempo sono diventati dei triti cliché. Ed è così facile ridere dei cliché. Li rigiri come niente. Tu scrolli la testa con un sorriso, tranquillo e al sicuro nel tuo mondo. Poi d'un tratto, perfino nel più banale dei martedì, nel più monotono dei lunedì, i ritornelli esausti e monotoni ti si piantano con forza in mezzo agli occhi.
Ti lacerano il petto.
Ti penetrano nel profondo del cuore.
Ti calpestano la volontà.
E sei tu quello che corre lungo il binario, dio mio, il treno è partito, se n'è andato, è sparito – ditemi, c'era anche lei a bordo? Ditermi, lei c'era, avete visto com'era vestita?
Com'era pettinata?
Corri lungo il binario come un disperato – lacerato dal verso più vecchio del mondo. Le più spesse mura di un castello non riescono a proteggerti, il più blindato dei rifugi antiatomici non può tenerti al sicuro – nemmeno la felicità o il calore della quotidianità possono darti conforto. Il verso di una vecchia canzone, quel ritornello maledetto, s'insinua attraverso qualsiasi cosa. Penetra senza alcuno sforzo nella saggezza, nel sapere, nei muscoli e nell'esperienza. Fuggi pure verso altri paesi, altri emisferi, nasconditi nelle valli più isolate, nei vicoli delle grandi città, quel maledetto verso, quell'accidente di ritornello, rintraccerà il tuo cuore, che tu sia a Buckingham Palace, nel ventre del Pentagono, sotto il letto del papa. Ti rintraccia, ti strappa tutte le armi di mano, e comincia a cantare.
And was she there?
And was he there?»

(da La tua assenza è tenebra, Jón Kalman Stefánsson)

La canzone è The Train Song di Nick Cave & The Bad Seeds e sapete cosa? Ora vado a riascoltarmela.

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