Passa ai contenuti principali

«Quando siete felici, fateci caso» ovvero di Kurt Vonnegut e delle piccole meraviglie

La nebbia arriva
con le sue zampette di gatto.
Si siede a guardare
il porto e la città
accucciata in silenzio
e poi se ne rivà.

È buffo che io inizi citando una poesia (di Carl Sandburg) che si trova in una nota del libro di Kurt Vonnegut Quando siete felici, fateci caso. Perché è una nota, perché potrebbe passare inosservata, e invece forse racchiude il succo di tutto. È la sua immediatezza.
Il libro è una raccolta di alcuni dei tanti discorsi che Vonnegut ha tenuto alle cerimonie di diploma di varie università degli Stati Uniti.
Naturalmente trattandosi di discorsi pensati per cerimonie simili, il succo che se ne trae è abbastanza semplice e di tanto in tanto risulta lievemente ridondante. Ma è la natura del libro a essere così. Però è l'anima di Vonnegut a emergere, nella sua semplicità immensa. Eppure, di questa semplicità abbiamo bisogno di "sentirci dire", dobbiamo sentircela ribadire perché nel nostro mondo, così complesso e complicato e corrotto è impressionante come solo dire che ci manca la semplicità è diventato un cliché.

come si fa a non essere felici mentre si mangia un gelato?
Sono pochi i capisaldi della vita, per Vonnegut, anzi, li potremmo con tutta probabilità ridurre a un unico precetto: essere misericordiosi con gli altri. «Di regola io ne conosco una sola: bisogna essere buoni, cazzo». 
Ma se vogliamo andare nello specifico, se vogliamo raggiungere due obiettivi abbastanza tipici nella vita, fare soldi e trovare l'amore, ecco qua la soluzione
1) lavorare sodo
2) vestirsi bene e sorridere sempre.

L'altra soluzione ai problemi della società, secondo Vonnegut, è il bisogno di una famiglia allargata. A questo aspetto tiene molto, e infatti credo lo ribadisca in ogni singolo discorso: «Ci sentiamo così soli perché non abbiamo abbastanza amici e parenti. Gli esseri umani dovrebbero vivere in famiglie allargate stabili, di mentalità affine, composte almeno di cinquanta persone ciascuna».
È la comunità quella di cui parla Kurt, secondo lui dovremmo coltivare di più le relazioni (anche quelle con le persone che ci piacciono meno) per sentirci meno soli, allora i matrimoni funzionerebbero meglio.

ecco risolte tutte le incomprensioni fra uomo e donna

Un altro cavallo di battaglia di Vonnegut è l'eterna guerra intergenerazionale. Non sopporta che i vecchi (quelli di oggi come quelli di ieri) non riescano a riconoscere nel giovane un adulto a meno che non sia stato in guerra (per l'uomo) o non abbia messo su famiglia (per la donna). La mancanza, secondo lui, di un rito di passaggio all'età adulta è parte di molti dei problemi esistenti fra i giovani di oggi. 
In più, i vecchi ritengono che i giovani siano apatici, che manchi loro quel "luccichio negli occhi": ma, spiega, il luccichio era solo dovuto all'odio. «Per tutta la vita ho avuto gente da odiare, da Hitler a Nixon [...]. È tragico, forse, che gli esseri umani riescano a trarre così tanta energia dall'odio. [...] L'odio batte di gran lunga la cocaina pura. Hitler ha fatto risorgere un paese sconfitto, in bancarotta e mezzo morto di fame grazie all'odio e nient'altro. Pensate un po'».
Insomma, quello che i giovani di oggi cercano di fare è di fare a meno dell'odio, vivere senza. Anche a me sembra una gran bella impresa.

E alla fine, quello che facciamo ogni giorno non è altro che buttarci giù da un precipizio e mentre cadiamo farci crescere le ali: una bellissima immagine di quello che è la vita, nelle sue difficoltà inaspettate anche quando facciamo tutto bene, tutto come si dovrebbe. E ogni volta, senza verità precostituite ma con quel po' di bagaglio che ci riusciamo a portare dietro – laureati o meno poco importa – con i pochi mezzi a disposizione, con la sola forza di volontà, ci facciamo spuntare delle ali, o ce le costruiamo, (oh, certo probabilmente ci sarà anche chi le ruba a qualcuno, ma questa è un'altra storia, con altre conseguenze), per sopravvivere prima e possibilmente, volare alto poi.

Certo già dal titolo si capiva che i discorsi agli studenti non volevano insegnare a essere felici, a trovare il successo quanto il contrario, a trovare il successo e la felicità in quel che si ha. Sì, un tema trito e ritrito, forse, ma forse non ancora abbastanza. Quanti sono davvero capaci di godersi il momento, la famosa limonata all'ombra in un giorno d'estate dello zio Alex Vonnegut, che non faceva altro che dire: «Cosa c'è di più bello di questo?». 


Però su una cosa dissento: il rifiuto della tecnologia, che trovo non solo anacronistico ma anche un po' una fissazione. Come sempre, il problema non è la tecnologia ma l'uso che se ne fa. Dalla tecnologia e dalle innovazioni possono nascere cose orribili ma anche cose bellissime, quindi prendersela contro di lei non ha alcun senso per me. Per quanto possa capire il suo punto di vista, no, non lo condivido. In ogni caso è un aspetto che in nessun discorso qui è approfondito, ma diciamo che quelle frasi buttate là su quello che la tecnologia non può fare un po' stridevano alle mie orecchie.

Naturalmente mi aspettavo dal libro anche qualche lezione di scrittura. Certo, quelle implicite, disseminate come origano su una pizza, sono diverse, ma quella più esplicita è questa: che non si deve usare il punto e virgola. «Il punto e virgola è un ermafrodito travestito che non rappresenta nulla». Serve soltanto a far vedere che siamo andati all'università. Che è un po' come dire che dall'ostentazione poi, stringi stringi, viene a mancare il contenuto, e allora a che cosa serve scrivere una frase per benino se non ha cuore, non ha anima, non ha nulla da dire? E così torniamo là, alla semplicità e immediatezza da cui sono partita. Alle piccole meraviglie.

So che di lunedì può sembrare controcorrente, ma siate felici :)
M

Commenti

Mareva ha detto…
Ho adocchiato quel libro la scorsa settimana (mi sa) e da allora continuo a trovarmi articoli e post a riguardo. Mi sa che me lo devo prendere!
Miky ha detto…
sarà che i fan di Vonnegut ne sentono la mancanza! :)

Post popolari in questo blog

Ancora

A volte ho la sensazione di non essere reale. Forse è colpa del fatto che lavoro tante ore da sola, forse ho questa abitudine di guardarmi da fuori, forse è perché ultimamente la confusione nella testa regna sovrana. Mi sento irreale, eppure so che le mie azioni hanno delle ripercussioni sulla realtà quindi dovrei rendermi conto che è una sensazione stupida. Cerco di fare cose concrete, regolari, misurate perché i ritmi e le cose cadenzate mi danno sicurezza. Provo a evitare le distrazioni ma non ne sono tanto capace. Finisco per inventarmi mondi immaginari e perdo l'àncora. È un bene o un male, perdere l'àncora? Non lo so proprio. A volte tutto sembra così insignificante se si pensa alla fine che faremo tutti, che mi chiedo a che pro reggersi sempre al parapetto, anche quando il mare si fa burrascoso? Però sì, rivorrei la calma. Rivorrei il silenzio. Rivorrei la sicurezza, o almeno la convinzione, di aver fatto bene. Rivorrei la sensazione di felicità scontata che scontata non

Sì, anche quest'anno arriva la storia di Babbo Natale

Tant'è che anche questo 2023 se ne sta andando e io arrivo alla fine di questo anno con una sensazione di piacevole sorpresa per ciò che è rimasto e non è andato via nonostante tutto, di meno piacevole rassegnazione per ciò che invece sembra via via sfuggire fra le dita, e di un grande punto di domanda su ciò che mi riserverà il 2024. Ma diciamolo piano, perché le annate pari ci hanno dato gatte da pelare (vedi il 2020, anno bisestile come il prossimo) quindi consiglio una bella ravanata alle parti basse per gli uomini e qualunque sia l'equivalente femminile di un gesto scaramantico per le donne (merda, neanche questo abbiamo, poi dice che il patriarcato non esiste). Qualcuno narra (io, viste le interazioni qui dentro) che ormai la tradizione del nostro Babbo Natale in trouble non possiamo proprio evitarla e pare vada riproposta ogni anno come Una poltrona per due , Trappola di cristallo e Mamma ho perso l'aereo , ma non prima di aver mandato un affettuoso saluto ultraterr

Luminosa e gentile

Oggi ho pranzato tardi, verso le due e mezza, ho alzato la testa dai miei crucci e guardato fuori dalla finestra e la luce calda dell'autunno ormai inoltrato si posava proprio così, luminosa e gentile sulle case di fronte. Stamattina quei crucci, quelli da cui più tardi avrei alzato la testa, mi erano parsi per diversi minuti, forse un'ora, insormontabili, mi erano scoppiati nel petto e avevo pianto, avevo pianto tanto sconvolgendo il mio viso, i miei occhi, faticando quasi a respirare, e indugiando per un millisecondo, forse molto meno, un'unità di misura più infinitesimale, ma comunque, su un orlo di un abisso. Poi però ho fatto il possibile per ricomporre la mia faccia e farla sembrare un po' meno un Picasso, per i pensieri e gli stati d'animo ci vorrà più tempo. Ho fatto cose che dovevo, cose che non avevo voglia ma che mi hanno fatto bene, mi hanno anche un po' distrutta. Non credo sia casuale che proprio oggi a funzionale abbia dovuto fermarmi per qualche